Una delle malattie più crudeli del nostro tempo, il morbo di Alzheimer, avrebbe una stretta relazione con il grasso addominale: lo conferma una ricerca americana
Il morbo di Alzheimer rappresenta una condizione neurodegenerativa con un andamento cronico e progressivo, che ad oggi figura come la causa più diffusa di demenza nella popolazione anziana. Attualmente, si stima che colpisca circa il 5% della popolazione sopra i 65 anni e circa il 20% degli individui al di sopra degli 85 anni. Tuttavia, in diversi casi, la malattia può manifestarsi precocemente, già intorno ai 50 anni di età.
Questa patologia, che deve il suo nome al neurologo tedesco Alois Alzheimer, il quale per primo ne descrisse le caratteristiche all’inizio del 1900, si caratterizza per un processo degenerativo progressivo che porta alla distruzione delle cellule cerebrali. Questo causa un deterioramento irreversibile delle funzioni cognitive, coinvolgendo memoria, ragionamento e linguaggio. Nel corso della malattia, si assiste a un graduale compromettersi dell’autonomia e della capacità di svolgere normali attività quotidiane.
Purtroppo, non sono stati ancora individuati possibili cure efficaci né i medici sono riusciti a isolarne le cause scatenanti. Nel tentativo di riuscire a comprendere il più possibile il morbo di Alzheimer, sono attualmente attive numerose ricerche, nelle più prestigiose università del mondo, finalizzate a debellare quella che sembra essere la malattia del secolo. Da ultimo, uno studio portato avanti dalla RSNA – Radiological Society of North America ha evidenziato i potenziali rischi associati all’eccesso di grasso addominale, in particolare il grasso viscerale, e la sua connessione con malattie come le malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e l’Alzheimer appunto.
L’associazione tra obesità, soprattutto quella localizzata nella zona addominale, e problemi di salute è ben documentata. L’accumulo di grasso viscerale può portare a una serie di complicanze metaboliche e infiammatorie, che a loro volta possono influire sulla salute cerebrale. Il fatto che l’obesità addominale sia legata a cambiamenti nel cervello che predispongono all’Alzheimer è un argomento di particolare rilevanza, che permette di fare un passo in avanti nella comprensione delle connessioni complesse tra il corpo e la salute del cervello.
Pancia e Alzheimer: lo della Radiological Society of North America
Proprio in occasione del recente incontro annuale della Radiological Society of North America, i ricercatori di questa prestigiosa società internazionale, che riunisce radiologi, fisici medici e altri professionisti dell’imaging medico, hanno presentato i risultati di uno studio che esamina l’associazione tra il grasso viscerale e diversi parametri cerebrali, facendo luce sui potenziali legami tra obesità addominale e rischio di Alzheimer. La ricerca ha esaminato il legame tra il grasso che circonda gli organi interni, noto come grasso viscerale, e i cambiamenti cerebrali che possono precedere l’insorgenza della malattia di Alzheimer di 15 anni.
In particolare, lo studio ha coinvolto 54 partecipanti cognitivamente sani, con età compresa tra 40 e 60 anni e un Indice di Massa Corporea (BMI) medio di 32, indicativo di un’obesità di primo grado. Attraverso la risonanza magnetica addominale, i ricercatori hanno misurato il volume del grasso sottocutaneo e del grasso viscerale. I partecipanti sono stati sottoposti anche a misurazioni del glucosio e dell’insulina, insieme a test di tolleranza al glucosio.
I risultati della ricerca
I risultati hanno rivelato che il grasso viscerale, situato in profondità nella zona addominale, è correlato a cambiamenti cerebrali associati all’Alzheimer. Nello specifico, la ricerca ha utilizzato la risonanza magnetica cerebrale per misurare lo spessore corticale delle regioni coinvolte nella malattia di Alzheimer. Dalle analisi, una quota più elevata di grasso viscerale, rispetto al grasso sottocutaneo, è stata associata a una maggiore concentrazione di proteine beta amiloidi, rilevate tramite esame PET, in una zona cerebrale nota per essere coinvolta nell’accumulo di amiloide, la proteina che scatena il morbo il Alzheimer.
Inoltre, la relazione tra il grasso viscerale e l’accumulo di amiloide era più pronunciata negli uomini rispetto alle donne. Questo può essere attribuito alla tendenza fisiologica degli uomini ad accumulare grasso nella zona addominale, mentre nelle donne questo fenomeno si manifesta più comunemente dopo la menopausa.
“Si pensa che diversi percorsi giochino un ruolo” spiega Mahsa Dolatshah, radiologa esperta in neuroimaging della Washington University di St. Louis e autrice dello studio del RSNA. “Le secrezioni infiammatorie prodotte dal grasso viscerale, in contrapposizione agli effetti protettivi del grasso subcutaneo possono causare infiammazione nel cervello, uno dei principali meccanismi che contribuiscono alla malattia di Alzheimer”. In particolare, si tratterebbe di una serie di meccanismi visibili già intorno ai 50 anni, ovvero 15 anni prima dell’esordio tipico della malattia.
Un altro dato significativo emerso dallo studio è che, a parità di Indice di Massa Corporea, il cervello mostrava uno stato peggiore, in termini di accumulo di proteine legate al futuro rischio di Alzheimer, nelle persone con una maggiore quantità di grasso viscerale rispetto a quella di grasso sottocutaneo. Si tratta di un risultato che lascia intendere che la pericolosità del grasso addominale si ripercuote anche su soggetti normopeso.
Va notato che altre ricerche precedenti avevano evidenziato il rischio associato all’eccesso di grasso addominale anche in individui con peso normale. Un precedente studio pubblicato su JAMA ha rivelato che donne in menopausa con peso normale ma con accumulo eccessivo di grasso addominale presentavano un rischio maggiore del 31% per tutte le cause di morte, risultato quasi paragonabile a quello del gruppo di individui obesi.
Alzheimer: prevenzione e cura
Katia Pinto, presidente della Federazione Alzheimer Italia, ha sottolineato la necessità di intensificare gli sforzi non solo nel campo della diagnosi tempestiva di Alzheimer e altre demenze e nel supporto post-diagnostico. Le sue parole sono giunte in occasione della XXX Giornata mondiale dell’Alzheimer, celebrata il 21 settembre nel contesto del XII Mese mondiale Alzheimer. A tal proposito, Pinto ha evidenziato l’importanza di concentrarsi anche sui fattori di rischio, citando una ricerca della Lancet Commission secondo cui intervenire su tali fattori potrebbe evitare o rallentare fino al 40% dei casi di demenza previsti in tutto il mondo entro il 2050.
Per quanto riguarda invece le frontiere della cura del morbo di Alzheimer, i risultati di uno studio clinico, pubblicati dall’American Medical Association, indicano che un nuovo farmaco sperimentale chiamato donanemab potrebbe rallentare la progressione della malattia e ritardarne l’aggravamento dei sintomi. Si tratta di un anticorpo monoclonale che agisce sulla rimozione della beta-amiloide, la proteina associata alle placche caratteristiche dell’Alzheimer.
I farmaci sperimentali
La sperimentazione, nota come ‘Trailblazer-Alz 2’, ha coinvolto oltre 1.700 pazienti con Alzheimer in fase iniziale, che sono stati assegnati a ricevere il farmaco o un placebo. Dopo circa un anno e mezzo, si è osservato che la malattia progrediva più lentamente nei pazienti trattati con donanemab: circa il 35% di rallentamento nelle forme più precoci e il 22,3% su tutti i pazienti in genere. Questi risultati si traducono in un rallentamento medio di 4,36 mesi. Inoltre, circa la metà dei pazienti trattati con il nuovo farmaco non ha mostrato peggioramenti clinici per almeno un anno, a differenza del 29% dei pazienti che avevano ricevuto il placebo.
Inoltre, pochi giorni dopo la pubblicazione dello studio dell’American Medical Association, la FDA, ovvero la Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha approvato la distribuzione del lecanemab, un farmaco con un meccanismo di azione simile a donanemab. Un editoriale comparso sulla rivista che ha diffuso lo studio ha descritto questi farmaci come l’inaugurazione di una nuova era nella terapia dell’Alzheimer. Tuttavia, viene sottolineata anche l’urgenza di risolvere alcune questioni, tra cui la valutazione precisa dei benefici clinici rispetto ai rischi di tali trattamenti.